Poesie e citazioni - quando le parole diventano sensazioni
Benvenuti
sul blog,
oggi
voglio proporvi una raccolta di poesie e citazioni sui fiori, sperando possa
essere uno spunto riflessivo e un’occasione per avvicinarvi al mondo delle
parole.
Buona
lettura.
Il gelsomino notturno
“Il
gelsomino notturno” è una poesia di Giovanni Pascoli dedicata alle nozze di un
suo amico, e pubblicata nel 1903 nei Canti di Castelvecchio.
E s'aprono i fiori notturni
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando
già prese le celle.
La
Chioccetta per l'aia azzurra
va col
suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
Mi
piacciono le orchidee: hanno colori d’acqua, fuoco, terra e luna.
- Fabrizio Caramagna
Illustrazione a cura di Sere Na |
Oh,
girasole, affaticato dal tempo!
Tu
che conti i passi del sole,
bramando
anche tu nquel luogo dorato
in cui il pellegrino conclude il
suo viaggio.
-
William Blake
Illustrazione a cura di Sara Russo |
Sonetto 54
(William Shakespeare)
Il
sonetto 54, è uno squisito contrasto fra la rosa selvatica e la rosa coltivata;
emblema di bellezza fisica e spirituale quest'ultima è da preferire per il
profumo. Sia la rosa che il profumo rappresentano una metafora della virtù.
Oh, di quanto più bella sembra
dal soave ornamento che la virtù le dona;
bella la rosa appare, ma più bella si tiene
per quel dolce profumo che a lei dentro vive;
rose canine han fiamma tanto intensa
quanto la profumata tinta delle rose,
stanno su eguali spine, sì gaiamente giocano
quando alito d'estate schiude quei bocci ascosi:
ma poi che il lor pregio sta solo in apparire
non corteggiate vivono, e trascurate avvizzano,
muoiono per sé sole. Non così soavi rose,
di lor morte soave, profumi soavissimi son tratti:
in tal modo di te, bello adorabil giovane,
come quella svanisca, distilla il mio verso la virtù.
Illustrazione a cura di Sere Na |
Il
mazzo di fiori
Che
fai laggiù bambina
Con
quei fiori appena colti
Che
fai laggiù ragazza
Con
quei fiori seccati
Che
fai laggiù bella donna
Con
quei fiori che appassiscono
Che
fai laggiù già vecchia
Con
quei fiori che muoiono
Aspetto il vincitore.
- Jacques Prévert
Il
viola è nato un giorno di primavera in un campo di lavanda. Deve aver cercato a
lungo un luogo come questo dove i filari vanno dritti verso l’orizzonte come se
fossero invitati a un ballo con l’infinito.
- Fabrizio Caramagna
Magnolia
La
bufera che sgronda sulle foglie
dure
della magnolia i lunghi tuoni
marzolini
e la grandine,
(i
suoni di cristallo nel tuo nido
notturno
ti sorprendono, dell'oro
che
s'e' spento sui mogani, sul taglio
dei
libri rilegati brucia ancora
una
grana di zucchero nel guscio
delle
tue palpebre)
Il
lampo che candisce
alberi
e muri e li sorprende in quella
eternita'
d'istante - marmo manna
e
distruzione - c'entro te scolpita
porti
per tua condanna e che ti lega
piu'
che l'amore a me, strana sorella, -
e
poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei
tamburelli sulla fossa fuia,
lo
scalpicciare del fandango, e sopra
qualche
gesto che annaspa...
Come
quando
ti
rivolgesti e con la mano, sgombra
la
fronte della nube dei capelli,
mi
salutasti - per entrar nel buio.
"La
bufera" (Eugenio Montale)
La ginestra
La
ginestra o Il fiore del deserto è la penultima lirica di Giacomo Leopardi,
scritta nella primavera del 1836 e pubblicata nell'edizione dei Canti nel 1845.
E
gli uomini vollero piuttosto
le
tenebre che la luce.
Qui
su l'arida schiena
Del
formidabil monte
Sterminator
Vesevo,
La
qual null'altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi
cespi solitari intorno spargi,
Odorata
ginestra,
Contenta
dei deserti. Anco ti vidi
De'
tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che
cingon la cittade
La
qual fu donna de' mortali un tempo,
E
del perduto impero
Par
che col grave e taciturno aspetto
Faccian
fede e ricordo al passeggero.
Or
ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi
e dal mondo abbandonati amante,
E
d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi
campi cosparsi
Di
ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata
lava,
Che
sotto i passi al peregrin risona;
Dove
s'annida e si contorce al sole
La
serpe, e dove al noto
Cavernoso
covil torna il coniglio;
Fur
liete ville e colti,
E
biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di
muggito d'armenti;
Fur
giardini e palagi,
Agli
ozi de' potenti
Gradito
ospizio; e fur città famose
Che
coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea
bocca fulminando oppresse
Con
gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una
ruina involve,
Dove
tu siedi, o fior gentile, e quasi
I
danni altrui commiserando, al cielo
Di
dolcissimo odor mandi un profumo,
Che
il deserto consola. A queste piagge
Venga
colui che d'esaltar con lode
Il
nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E'
il gener nostro in cura
All'amante
natura. E la possanza
Qui
con giusta misura
Anco
estimar potrà dell'uman seme,
Cui
la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con
lieve moto in un momento annulla
In
parte, e può con moti
Poco
men lievi ancor subitamente
Annichilare
in tutto.
Dipinte
in queste rive
Son
dell'umana gente
Le
magnifiche sorti e progressive.
Qui
mira e qui ti specchia,
Secol
superbo e sciocco,
Che
il calle insino allora
Dal
risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti,
e volti addietro i passi,
Del
ritornar ti vanti,
E
proceder il chiami.
Al
tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di
cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno
adulando, ancora
Ch'a
ludibrio talora
T'abbian
fra se. Non io
Con
tal vergogna scenderò sotterra;
Ma
il disprezzo piuttosto che si serra
Di
te nel petto mio,
Mostrato
avrò quanto si possa aperto:
Ben
ch'io sappia che obblio
Preme
chi troppo all'età propria increbbe.
Di
questo mal, che teco
Mi
fia comune, assai finor mi rido.
Libertà
vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi
di novo il pensiero,
Sol
per cui risorgemmo
Della
barbarie in parte, e per cui solo
Si
cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida
i pubblici fati.
Così
ti spiacque il vero
Dell'aspra
sorte e del depresso loco
Che
natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente
rivolgesti al lume
Che
il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil
chi lui segue, e solo
Magnanimo
colui
Che
se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin
sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom
di povero stato e membra inferme
Che
sia dell'alma generoso ed alto,
Non
chiama se nè stima
Ricco
d'or nè gagliardo,
E
di splendida vita o di valente
Persona
infra la gente
Non
fa risibil mostra;
Ma
se di forza e di tesor mendico
Lascia
parer senza vergogna, e noma
Parlando,
apertamente, e di sue cose
Fa
stima al vero uguale.
Magnanimo
animale
Non
credo io già, ma stolto,
Quel
che nato a perir, nutrito in pene,
Dice,
a goder son fatto,
E
di fetido orgoglio
Empie
le carte, eccelsi fati e nove
Felicità,
quali il ciel tutto ignora,
Non
pur quest'orbe, promettendo in terra
A
popoli che un'onda
Di
mar commosso, un fiato
D'aura
maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge
sì, che avanza
A
gran pena di lor la rimembranza.
Nobil
natura è quella
Che
a sollevar s'ardisce
Gli
occhi mortali incontra
Al
comun fato, e che con franca lingua,
Nulla
al ver detraendo,
Confessa
il mal che ci fu dato in sorte,
E
il basso stato e frale;
Quella
che grande e forte
Mostra
se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
Fraterne,
ancor più gravi
D'ogni
altro danno, accresce
Alle
miserie sue, l'uomo incolpando
Del
suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che
veramente è rea, che de' mortali
Madre
è di parto e di voler matrigna.
Costei
chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta
esser pensando,
Siccome
è il vero, ed ordinata in pria
L'umana
compagnia,
Tutti
fra se confederati estima
Gli
uomini, e tutti abbraccia
Con
vero amor, porgendo
Valida
e pronta ed aspettando aita
Negli
alterni perigli e nelle angosce
Della
guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo
armar la destra, e laccio porre
Al
vicino ed inciampo,
Stolto
crede così, qual fora in campo
Cinto
d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar
degli assalti,
Gl'inimici
obbliando, acerbe gare
Imprender
con gli amici,
E
sparger fuga e fulminar col brando
Infra
i propri guerrieri.
Così
fatti pensieri
Quando
fien, come fur, palesi al volgo,
E
quell'orror che primo
Contra
l'empia natura
Strinse
i mortali in social catena,
Fia
ricondotto in parte
Da
verace saper, l'onesto e il retto
Conversar
cittadino,
E
giustizia e pietade, altra radice
Avranno
allor che non superbe fole,
Ove
fondata probità del volgo
Così
star suole in piede
Quale
star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente
in queste rive,
Che,
desolate, a bruno
Veste
il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo
la notte; e sulla mesta landa
In
purissimo azzurro
Veggo
dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui
di lontan fa specchio
Il
mare, e tutto di scintille in giro
Per
lo vòto Seren brillar il mondo.
E
poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a
lor sembrano un punto,
E
sono immense, in guisa
Che
un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente;
a cui
L'uomo
non pur, ma questo
Globo
ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto
è del tutto; e quando miro
Quegli
ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi
quasi di stelle,
Ch'a
noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E
non la terra sol, ma tutte in uno,
Del
numero infinite e della mole,
Con
l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O
sono ignote, o così paion come
Essi
alla terra, un punto
Di
luce nebulosa; al pensier mio
Che
sembri allora, o prole
Dell'uomo?
E rimembrando
Il
tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il
suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che
te signora e fine
Credi
tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar
ti piacque, in questo oscuro
Granel
di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per
tua cagion, dell'universe cose
Scender
gli autori, e conversar sovente
Co'
tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni
rinnovellando, ai saggi insulta
Fin
la presente età, che in conoscenza
Ed
in civil costume
Sembra
tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal
prole infelice, o qual pensiero
Verso
te finalmente il cor m'assale?
Non
so se il riso o la pietà prevale.
Come
d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui
là nel tardo autunno
Maturità
senz'altra forza atterra,
D'un
popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati
in molle gleba
Con
gran lavoro, e l'opre
E
le ricchezze che adunate a prova
Con
lungo affaticar l'assidua gente
Avea
provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia,
diserta e copre
In
un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero
tonante
Scagliata
al ciel, profondo
Di
ceneri e di pomici e di sassi
Notte
e ruina, infusa
Di
bollenti ruscelli,
O
pel montano fianco
Furiosa
tra l'erba
Di
liquefatti massi
E
di metalli e d'infocata arena
Scendendo
immensa piena,
Le
cittadi che il mar là su l'estremo
Lido
aspergea, confuse
E
infranse e ricoperse
In
pochi istanti: onde su quelle or pasce
La
capra, e città nove
Sorgon
dall'altra banda, a cui sgabello
Son
le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo
monte al suo piè quasi calpesta.
Non
ha natura al seme
Dell'uom
più stima o cura
Che
alla formica: e se più rara in quello
Che
nell'altra è la strage,
Non
avvien ciò d'altronde
Fuor
che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben
mille ed ottocento
Anni
varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea
forza, i popolati seggi,
E
il villanello intento
Ai
vigneti, che a stento in questi campi
Nutre
la morta zolla e incenerita,
Ancor
leva lo sguardo
Sospettoso
alla vetta
Fatal,
che nulla mai fatta più mite
Ancor
siede tremenda, ancor minaccia
A
lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor
poverelli. E spesso
Il
meschino in sul tetto
Dell'ostel
villereccio, alla vagante
Aura
giacendo tutta notte insonne,
E
balzando più volte, esplora il corso
Del
temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto
grembo
Sull'arenoso
dorso, a cui riluce
Di
Capri la marina
E
di Napoli il porto e Mergellina.
E
se appressar lo vede, o se nel cupo
Del
domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo
gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta
la moglie in fretta, e via, con quanto
Di
lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede
lontano l'usato
Suo
nido, e il picciol campo,
Che
gli fu dalla fame unico schermo,
Preda
al flutto rovente
Che
crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente
sovra quei si spiega.
Torna
al celeste raggio
Dopo
l'antica obblivion l'estinta
Pompei,
come sepolto
Scheletro,
cui di terra
Avarizia
o pietà rende all'aperto;
E
dal deserto foro
Diritto
infra le file
Dei
mozzi colonnati il peregrino
Lunge
contempla il bipartito giogo
E
la cresta fumante,
Ch'alla
sparsa ruina ancor minaccia.
E
nell'orror della secreta notte
Per
li vacui teatri, per li templi
Deformi
e per le rotte
Case,
ove i parti il pipistrello asconde,
Come
sinistra face
Che
per voti palagi atra s'aggiri,
Corre
il baglior della funerea lava,
Che
di lontan per l'ombre
Rosseggia
e i lochi intorno intorno tinge.
Così,
dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei
chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo
gli avi i nepoti,
Sta
natura ognor verde, anzi procede
Per
sì lungo cammino,
Che
sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan
genti e linguaggi: ella nol vede:
E
l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E
tu, lenta ginestra,
Che
di selve odorate
Queste
campagne dispogliate adorni,
Anche
tu presto alla crudel possanza
Soccomberai
del sotterraneo foco,
Che
ritornando al loco
Già
noto, stenderà l'avaro lembo
Su
tue molli foreste. E piegherai
Sotto
il fascio mortal non renitente
Il
tuo capo innocente:
Ma
non piegato insino allora indarno
Codardamente
supplicando innanzi
Al
futuro oppressor; ma non eretto
Con
forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè
sul deserto, dove
E
la sede e i natali
Non
per voler ma per fortuna avesti;
Ma
più saggia, ma tanto
Meno
inferma dell'uom, quanto le frali
Tue
stirpi non credesti
O
dal fato o da te fatte immortali.
Ti
penso cara Susie, ora, non so come e perché, ma più caramente ogni giorno che
passa, e quel dolce mese promesso si avvicina sempre di più, e guardo a luglio
in modo diverso da come ho sempre fatto – una volta mi sembrava arido, e secco
– a stento ne ho amato qualcosa a causa della calura e della polvere; ma ora
Susie, di tutti i mesi dell'anno è il migliore; disdegno le violette – e la
rugiada, e la prima Rosa e i Pettirossi; li cambierei tutti per quel feroce e
bollente mezzogiorno, quando potrò contare le ore e i minuti che mancano al tuo
arrivo [... ].
(a Susan Gilbert, verso febbraio
1852, 77) — Emily Dickinson
A presto,
Libera
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